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Si sveglia dal coma e lavora in corsia

dal Corriere della Sera del 7.01.2019

Si sveglia dal coma e lavora in corsia

Martina e la seconda vita: «Io, infermiera nel reparto dove mi svegliai dal coma»

Palermo, 10 anni fa l'incidente. «Tutto è possibile, sono la prova»

di Alfio Sciacca


Palermo. «Ho scelto io di lavo rare in questo reparto perché voglio dare quello che ho ricevuto». Nell'«Unità risveglio» dell'ospedale Giglio di Cefalù Martina Giannone, 27 anni, sa di non essere un'infermiera come le altre. Ogni giorno tra i pazienti che escono dal tunnel del coma, lei riesce a istaurare un rapporto unico soprattutto con familiari spesso devastati dall'alternanza tra disperazione e speranza. Prima che da infermiera, infatti, in questo reparto Martina ci è entrata da paziente, ritornando alla vita La vicenda • Quando aveva 17 anni Martina Giannone rimase in coma per 28 giorni in seguito a un grave incidente automobilistico: fu ricoverata prima in rianimazione a Palermo e poi trasferita a Cefalù, dove si risvegliò dopo circa un mese di coma.

Aveva 17 anni quando rimase vittima di un incidente in auto con dei coetanei. Il compagno di liceo al suo fianco mori sul colpo, altri due rimasero feriti. «Fui ricoverata m rianimazione a Palermo — racconta —. Dell'incidente e della rianimazione non ricordo nulla, buio totale.

Raccontano che dopo 28 giorni davo segni di ripresa, così venni trasferita a Cefalù. E qui mi sono risvegliata vedendo per la prima volta le lacrime di mia madre». Sono passati circa dieci anni. Un periodo in cui Martina ha dovuto affrontare un durissimo lavoro di riabilitazione.

«Al risveglio ero tracheotomizzata e con metà del corpo paralizzato». Ma non ha mai perso la voglia di reagire e i fatti le hanno dato ragione. Ha conseguito la maturità, poi la laurea in scienze infermieristiche e, alla fine, si è aggiudicata le selezioni per dei contratti a tempo determinato proprio nell'Unità Risveglio di Cefalù. «E dopo circa due anni di precariato a ottobre sono stata assunta a tempo indeterminato».

Un traguardo che ha voluto suggellare facendosi tatuare sul braccio la scritta che campeggia all'ingresso del reparto: «Tutto è possibile a chi crede». «È diventata la frase della mia vita. Ð faro che mi dice che non bisogna mai mollare».

E così ogni giorno Martina indossa il suo camice azzurro e va incontro alle mille storie impastate di angoscia e speranza. «Nella maggior parte dei casi ci arrivano ragazzi giovanissimi ed è straziante affrontare i genitori. Come infermieri dovremmo essere professionali ma io vado sempre oltre le parole di circostanza. Molte famiglie inizialmente reagiscono con perplessità, poi trovano conforto nel sapere che la mia storia è la dimostrazione concreta che c'è sempre una speranza. Di recente la mamma di una ragazza di vent'anni mi si è avvicinata e mi ha detto: "Ho sentito parlare di tè". Poi mi ha abbracciata forte senza aggiungere altro».

È stato proprio questo l'argomento della sua tesi di laurea: «II rapporto infermiere paziente». Una fatica immane l'università e la tesi preparata durante la riabilitazione con l'aiuto di un logopedista perché per anni ha avuto difficoltà anche a parlare. Oltre che a muoversi. Un trauma nel trauma per lei che fino al giorno dell'incidente praticava ballo di coppia a livello agonistico. «Era il sogno della mia vita — racconta — nella stanza in ospedale c'erano le foto delle mie gare e dicevo agli infermieri: io sono quella, non questa a letto. Poi dopo tré mesi venne il giorno in cui provare a camminare e il primario del reparto Giuseppe Galardi mi disse: "Come riabilitazione lei dovrà tornare a ballare". Ma come, se non riesco nemmeno a fare un passo?

Aveva ragione lui. 




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